Compito in classe
Oggi, compito in classe.
Matematica, per la precisione. La rovina- media per eccellenza. L’asperità su una tavola di masonite liscia. L’impedimento, l’ostacolo, il bastone tra le ruote. Almeno io la vedo così. Tutti i miei complessi d’inferiorità si concentrano in quell’accozzaglia di formule, equazioni, radici quadrate ed integrali. Una notte le ho addirittura sognate, intrecciate e contorte fino a trasformarsi in belve a quattro zampe dalle indefinite fattezze: sono tenute al guinzaglio da una donna di piccola statura dalle forme scheletriche, e completamente ricoperta di latex nero. Se ne vedevano solo i capelli ricci ed arruffati.
Non tardo ad identificarla proprio come la mia professoressa.
I miei voti stavano peggiorando, e lei lo venne a sapere. A casa mi capitava ormai sempre più spesso di afferrare con violenza tutti i libri e di scaraventarli addosso al muro. Davo sempre la colpa a qualcosa: al caldo, al vociferare proveniente dalla cucina, alla gatta che si sdraiava sul libro…qualsiasi cosa era buona per scaricarmi. La notte mi rigiravo nel letto e mi capitava spesso di imbrattare il cuscino di lacrime isteriche.
Dicevo; lei venne a sapere del mio peggioramento de della mia situazione di stress. Da allora entrava in classe fissandomi silenziosamente, con malignità. Si divertiva a rinchiudermi in quel suo sguardo color vetro opaco. Si faceva scappare impercettibili tremolii delle labbra, tentando di nascondere il suo ghigno della vittoria, la vittoria contro il secchione della classe finalmente domato.
Anche oggi mi ha salutato con quel ghigno sardonico volutamente malcelato. Forse anche gli altri della classe stanno cominciando ad accorgersene. Con passo cadenzato, la famigerata passa tra i nostri banchi facendo ticchettare i tacchi dei suoi stivaletti e distribuendo i questionari. Dà un’ultima occhiata alla classe, per sincerarsi di aver tutto sotto controllo. Poi si siede a braccia conserte.
Appena si è seduta, mi alzo con il foglio in mano. Arrivato alla cattedra, glielo getto lì davanti assieme ad un oggetto metallico di piccole dimensioni. Lei mi guarda stupefatta, senza fiatare. Io le restituisco un sorriso malvagio e mi tolgo la T-shirt, mostrando quello che c’era sotto.
Solo allora vedo i suoi occhi vetro opaco infrangersi dall’orrore, alla vista della spoletta sulla cattedra e della granata.
Matematica, per la precisione. La rovina- media per eccellenza. L’asperità su una tavola di masonite liscia. L’impedimento, l’ostacolo, il bastone tra le ruote. Almeno io la vedo così. Tutti i miei complessi d’inferiorità si concentrano in quell’accozzaglia di formule, equazioni, radici quadrate ed integrali. Una notte le ho addirittura sognate, intrecciate e contorte fino a trasformarsi in belve a quattro zampe dalle indefinite fattezze: sono tenute al guinzaglio da una donna di piccola statura dalle forme scheletriche, e completamente ricoperta di latex nero. Se ne vedevano solo i capelli ricci ed arruffati.
Non tardo ad identificarla proprio come la mia professoressa.
I miei voti stavano peggiorando, e lei lo venne a sapere. A casa mi capitava ormai sempre più spesso di afferrare con violenza tutti i libri e di scaraventarli addosso al muro. Davo sempre la colpa a qualcosa: al caldo, al vociferare proveniente dalla cucina, alla gatta che si sdraiava sul libro…qualsiasi cosa era buona per scaricarmi. La notte mi rigiravo nel letto e mi capitava spesso di imbrattare il cuscino di lacrime isteriche.
Dicevo; lei venne a sapere del mio peggioramento de della mia situazione di stress. Da allora entrava in classe fissandomi silenziosamente, con malignità. Si divertiva a rinchiudermi in quel suo sguardo color vetro opaco. Si faceva scappare impercettibili tremolii delle labbra, tentando di nascondere il suo ghigno della vittoria, la vittoria contro il secchione della classe finalmente domato.
Anche oggi mi ha salutato con quel ghigno sardonico volutamente malcelato. Forse anche gli altri della classe stanno cominciando ad accorgersene. Con passo cadenzato, la famigerata passa tra i nostri banchi facendo ticchettare i tacchi dei suoi stivaletti e distribuendo i questionari. Dà un’ultima occhiata alla classe, per sincerarsi di aver tutto sotto controllo. Poi si siede a braccia conserte.
Appena si è seduta, mi alzo con il foglio in mano. Arrivato alla cattedra, glielo getto lì davanti assieme ad un oggetto metallico di piccole dimensioni. Lei mi guarda stupefatta, senza fiatare. Io le restituisco un sorriso malvagio e mi tolgo la T-shirt, mostrando quello che c’era sotto.
Solo allora vedo i suoi occhi vetro opaco infrangersi dall’orrore, alla vista della spoletta sulla cattedra e della granata.